Gravel Kask Soave: da un sorso di vino a Giulietta e Romeo A/R

La prima volta di una esperienza in stile gravel, pedalando sulle strade bianche tra i vigneti di Soave, gli argini dell’Adige e la città di Verona. Ecco perché lo sterrato ha un fascino unico.

Sette anni fa, credo, o giù di lì. È stata la prima volta che ho sentito parlare di gravel grazie a un giornalista, in una fiera di ciclismo, che mi spiegava questa nuova tendenza americana: «Praticamente sono delle bici da strada, ma con le ruote più larghe, tipo da ciclocross, ma un po’ più sottili di quelle da mountain bike, insomma ideali per pedalare sulle strade bianche…». Col tempo ho scoperto che quella area grigia che sta tra il ciclismo su asfalto e la mountain bike, rappresentava un’altra declinazione della bicicletta, che non è più solo due ruote e un telaio, ma è molto di più. La mia personale interpretazione del mondo gravel si avvicina all’idea di essere “performante” come su una bici da strada, ma solcando un terreno “divertente” dove non ci si annoia mai e il livello di attenzione deve essere alto per ciò che si trova a terra e non tanto per automobilisti incazzosi che arrivano alle nostre spalle. L’idea è intrigante, e il progetto è soprattutto irresistibile se hai un animo curioso, quello del bimbo che non vuole crescere mai.

E così quando scopro che alla Granfondo Kask Soave di mountain bike nel programma della vigilia ci hanno messo una “corsa” gravel, capisco che il momento è arrivato. Il percorso sulla mappa è seducente perché disegnato su un anello di un centinaio di chilometri, piatto come un ferro da stiro.

Pronti via. Si parte da Soave, capitale di un rosolio bianco, nobile al profumo e palato ricco di minerali preziosi al palato, e si pedala verso sud lungo sterrati disegnati sull’argine del canale Alpone, che le carte dichiarano torrente ma che il lavoro dell’uomo ha trasformato in affluente del fiume madre. E quando in questa zona si parla di fiume si intende l’Adige, mica un rigagnolo qualsiasi.  Siamo in quattro, un gruppo al quale mi sono unito alla partenza e con cui condividerò una crociera gravel: i miei tre compagni di viaggio, Marco, Luca e Andrea, portano nomi come fossero apostoli di questa crociata in stile off-road.

L’Adige lo incrociamo dopo 13 chilometri dalla partenza nell’omonimo paese di Ronco. A destra campi che tra poco regaleranno grano ai mulini, mentre a sinistra resistono piccoli boschi in cui si rifugiano rondoni, passeri e verzellini. Pedaliamo in quattro dandoci il cambio davanti a tirare: il rumore delle ruote sullo sterrato sembra lo schioppettio dei pop-corn in pentola, e la polvere sollevata dalle ruote che mi recedono ammanta i miei pensieri e secca la mia gola. Bevo dalla borraccia ma un Coca Cola fresca ora ci starebbe. Al chilometro 45 del mio Garmin vediamo in lontananza la città di Verona, mentre sulla destra un bicigrill sembra al caso nostro. «Panino con mortadella per tutti?» chiede Luca, e nessuno del gruppetto sembra obbiettare.

Appoggio alla staccionata la mia gravel, una di quelle bici che le aziende del settore hanno messo a catalogo da quando il fenomeno, in questi sette e passa anni, le biciclette off-road sono passate da piccolo fenomeno di qualche sperduta community nel mid-west a vera e propria disciplina sportiva con tanto di gare e competizioni. La Trek che sto cavalcando è la Checkpoint SL 6, un telaio di carbonio, freni a disco, pneumatici da 38 mm e, soprattutto, la possibilità di settarla in base al tracciato che si vuole affrontare: ho scoperto che il sistema IsoSpeed consente di spostare la ruota posteriore in avanti per rendere la bici più compatta e performante su tracciati tecnici, oppure tenere la ruota a fondo corsa per prediligere la velocità e la stabilità su tracciati filanti. Un po’ quello che c’è qui a Soave dove si pedala con l’unico scopo di respirare una campagna veronese poco conosciuta, ma estremamente affascinante per panorami e profili culturali.

Pronti per ripartire, scopriamo che la ruota anteriore di Andrea è a terra: «Ci sta, è gravel…» e facciamo un pit-stop per il cambio della camera d’aria. Lasciato il punto ristoro, risaliamo l’Adige verso occidente e a questo punto entriamo nel centro abitato di Verona fino a lambire l’Arena, passando dal lento panorama agricolo dove le stagioni si alternano al caotico traffico cittadino della città scaligera. Ci districhiamo nelle vie di Verona, salutiamo la città di Romeo e Giulietta e ben presto affrontiamo la prima ascesa, fino all’Eremo di San Rocchetto, adagiato sul monte Cavro, una collina macchiata da ulivi nei pressi di Quinzano. Questa è una delle due salite che incontrerò lungo il tracciato: a volte le ruote slittano, un po’ di mancanza di aderenza, ma qualche cenno di tecnica di guida e due gambe discretamente allenate però aiutano a superare l’ascesa. Giunto al luogo sacro, un minuto di raccoglimento è doveroso, se non altro perché ci aspetta una discesa piuttosto tecnica, dove rinuncio a lasciare il sedere sulla sella, e tenendo per mano la mia Trek superando così sassi, gradini e piccoli salti.

Riprendiamo a pedalare nella seconda parte del tracciato, più collinare, tra acciottolati e sentieri ricoperti d’erba, e con qualche su e giù, puntando alla seconda sosta, che arriverà ben presto e che, vista ormai la vicinanza di Soave, ci permette di sostituire una coca con la birra: «Mezza per tutti?» chiede Marco, e anche in questo caso nessuno obbiezione. Fa caldo, il termometro segna oltre 30 gradi, e la sudorazione non mi da tregua. Riempio le due borracce, anche se la Checkpoint potrebbe ospitarne altre, perché (e qui c’è il grande potenziale delle bici gravel) queste bici sono ideali per il bikepacking, la nuova forma di cicloturismo leggero, o meglio ciclo-viaggi minimalisti, con borse e bagagli specifici. Ma questa è un’altra storia.

Giunto nel villaggio di Cazzano di Tramigna una sosta è doverosa, e persino emozionante. Lascio la Trek appoggiata al muretto e mi affaccio su una grande piscina: è la sorgiva del torrente Tramigna. Il marmo intorno, i cigni che lo navigano, i pesci che ci nuotano, bello e rilassante, e scendendo per una breve scala, si arriva a una pompa da cui esce acqua potabile: offriamo le nostre borracce al becco dell’archibugio idraulico da cui esce fresca e buona, lucida e naturale l’acqua più buona che abbia mai bevuto.

Riprendiamo il viaggio entrando nel cuore di Soave, lungo strade bianche che passano tra vigne di garganega (il vitigno principe di questo vino) e filari di ulivi. Un cartello dice “Vendita ciliegie” e la tentazione di fermarsi per rubarle dalle piante è tanta, ma l’etica è superiore, e tiriamo dritto, perché a Soave ci aspetta una doccia per toglierci la stanchezza di una gravel che ci ha lasciato impolverate le pareti dell’anima.

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