Intervista al Dr House dell’estremo

Quando si nomina Steve House si evoca inevitabilmente un immaginario fatto di cime impossibili da raggiungere e di arrampicate estreme su roccia e ghiaccio. Nato in Oregon nel 1970, Steve è un gigante dell’alpinismo contemporaneo: ha scalato le montagne più alte del mondo aprendo vie nuove su pareti inesplorate, ma è famoso soprattutto per il suo stile di scalata iper essenziale e rispettoso della natura. Da ricordare, tra le altre cose, anche il suo trionfo nel 2006 agli oscar della montagna (Piolet d’Or) per la sua ascesa – la maggior parte del tempo il libera – al Nanga Parbat insieme all’amico Vincent Anderson. Abbiamo avuto la fortuna di intervistarlo in occasione dell’Adventure Alpine Night for Nepal con gli alpinisti Matteo Della Bordella e Gianpaolo Corona.

Steve, ogni spedizione implica l’onnipresente probabilità della morte. Una caduta, una disattenzione e nel giro di un secondo la vita ti sfugge di mano. Tu come ti poni di fronte a questa eventualità?

La montagna è intimamente legata alla paura. Sono consapevole dei pericoli in cui posso incorrere e mi è già capitato di rischiare la vita. Nel 2010 mentre stavo salendo sul Mount Temple con un amico sono scivolato e sono caduto per 25 metri. Il risultato? Costole e vertebre rotte, emorragia interna, e polmone danneggiato. La possibilità di morire fa parte di questo sport. Io cerco di studiare i movimenti per evitare rischi inutili; non mi sento uno sportivo sconsiderato. Inoltre con l’esperienza e gli anni sono diventato più cauto.

A volte non si riesce a raggiungere la cima. Come gestisci gli insuccessi?

Quello che ci insegna la montagna è imparare anche dalle sconfitte. Può capitare che il tempo non sia clemente, che il partner non si senta bene, ma anche che tu non sia particolarmente in forma. In fondo, l’alpinismo è come la vita. Non puoi essere sempre al massimo, e gli insuccessi ti permettono di conoscere e accettare i limiti tuoi, dell’ambiente, degli altri.

Dopo una vita spesa in quota cosa pensi che possa insegnare la montagna?

Quando ero giovane ero convinto che la montagna potesse insegnarmi ogni cosa. Crescendo sia come uomo, sia come alpinista, mi sono reso conto che prima di tutto quello che puoi imparare da questo sport è il valore dei rapporti umani: amicizie, amori, famiglia. Quando scali capisci cosa conta davvero nella vita, ed è questo che amo e ritengo importante.

Sei famoso tra i grandi scalatori per la tua scelta di affrontare la montagna con lo stile alpino,ovvero usando meno materiale possibile e rispettando al massimo la natura. Come pensi di insegnare e diffondere questo approccio nel mondo dell’alpinismo?

Io penso che il rispetto della natura sia qualcosa di molto spontaneo. Per me le montagne devono essere affrontate come una sfida naturale che, in quanto tale, non deve minimamente avere impatti negativi sull’ambiente. Portatori sherpa, ossigeno e questo genere di attrezzature non sono indispensabili. Certo, lo diventano se vuoi raggiungere la cima a tutti i costi quando ti manca la giusta preparazione e non conosci nemmeno bene te stesso. A quel punto si finisce per giustificare ogni mezzo utile all’arrivare. Ma io preferisco sfidare i miei limiti, solo di fronte alla montagna. Per esempio, nel 2003 ho scalato il K7 da solo, con uno zaino da 3 kg. In totale la spedizione mi è costata solo 1400 dollari. In una frase: più conosci, meno hai bisogno. Nel mio caso, la semplicità è stata la chiave del successo.
E non dimentichiamo che la vera sfida sta nell’ascesa, non nel toccare la cima: è in quel momento che hai l’occasione di conoscere meglio te stesso e i tuoi limiti.

Capitano momenti in cui ti chiedi: “Perché lo sto facendo”?

Certo, ma se poi penso a quello che c’è oltre alla montagna, le persone amate che mi aspettano a casa, la voglia di scalare ritorna più forte di prima.

Infine, cosa rappresenta per te il Nepal, questa sorta di Wimbledon degli alpinisti?

La catena dell’Himalaya è sicuramente una grande mecca degli scalatori, ma sarò sincero: penso che ci siano tante altre “mecche”, dalle Dolomiti alle montagne del Canada. Ripeto: quello che conta è il tuo rapporto diretto con la montagna. Come diceva Walter Bonatti, “Dietro la montagna c’è l’uomo”, non un’altra cima da affrontare. Io penso che “Dietro la montagna” ci siamo “noi”: per questo mi sento investito della missione di insegnare e trasmettere alla prossima generazione di alpinisti ciò che io conosco, dalle tecniche alla mia filosofia di vita e di scalata.

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