La storia della mia traversata a nuoto del Lago d’Endine

Nuoto in acque libere. La prima edizione della Traversata nello specchio d’acqua orobico ha visto quasi duecento atleti al via su due distanze. Cambia la disciplina ma le emozioni sembrano ripetersi. Ecco com’è andata.

Mi metto in coda, diligentemente. Mentre la fila avanza lentamente, mi guardo intorno e vedo gente a torso nudo soffiare in un pallone arancione: sarà la boa-pettorale. Un cordino bianco legato in vita, un numero nero stampato in evidenza e gente che vi soffia all’interno. Vuufff, vuufff… Gonfiano i polmoni, gonfiano il prezioso galleggiante. Giovanni, l’organizzatore, nel briefing che seguirà, sottolinea come la boa serva anche in caso di emergenza: “Se avete un problema, qualsiasi problema, fermatevi e ancoratevi bene alla boa, e con l’altra mano picchiate sull’acqua, e una barca verrà in vostro aiuto”. Alcuni degli iscritti, con la scusa di sistemarsi il costume, si strofinano le intimità con un gesto scaramantico.

Sul prato verde antistante la partenza è tutto un rumore di zip che si aprono e si chiudono: sono quelle delle borse dalle quali escono occhialini e qualche integratore, e quelle delle mute.
Nel lago d’Endine ci avevo nuotato due domeniche prima, un allenamento in solitaria seguito dalle mie donne: una moglie e una figlia. Io in acqua a mulinare bracciate, loro sul pedalò a chiacchierare.

Due settimane fa ero da solo, oggi siamo in quasi duecento. È la prima edizione della Traversata del Lago d’Endine: quattro grosse boe gialle intorno alle quali fare uno o due giri. 1.500 o 3000 metri. Io opto per la distanza lunga, ideale test in vista dell’Ironman di Kalmar tra un paio di settimane.
Prima di partire guardo gli avversari e non trovo nessun volto noto e riprovo la sensazione di una anno fa, nella traversata del Lago d’Iseo: qui si conoscono tutti, è un circo che si muove da gara a gara, non corrono né pedalano, tantomeno sciano. Questi nuotano e basta. E menano, mammamia quanto menano. Una community anfibia. Mi viene sotto mano un volantino con alcune gare e scopro un ricco calendario di competizioni: ogni domenica ce n’è una. Pazzesco. E sono tutte sold-out. Che sia “nuoto-mania”?

Apro la zip della borsa e prendo gli occhialini. Chiudo la zip della muta e indosso gli occhialini. È il rituale che si compie. Sono pronto. Il cielo non è proprio grigio, e non sono le lenti degli occhiali a far cambiare il colore. C’è aria di pioggia. “Vabbè, mi bagnerò”. Umorismo pre-competizione.

Vedo uomini sovrappeso e ragazzi dalle spalle larghe e tornite. Vedo ragazze che sciolgono possenti tricipiti e donne dai laschi tessuti. Varia umanità natatoria. Ti accorgi di avere lo status del forestiero da come ti guardano: c’è relax, poco stress competitivo, non si respira la tensione che c’è prima di una gran fondo in bici, per esempio. Quella roba lì che sono tutti con la faccia da incazzati come se fossero un concentrato di Froome/Contador/Nibali qui non c’è.

Mi butto in acqua. Mi allineo su una ipotetica striscia di partenza. Al via è tutta una schiuma bianca su cui galleggiano uomini vestiti di pelle nera e palloni il cui color mi ricorda la Citroen Diane di un mio amico.
Arrivo alla prima boa gialla dopo aver fatto a sportellate (involontarie, si intende) con un altro concorrente. Il gruppo si allunga, io anche. Alla seconda boa le spalle si scaldano e giro di bolina. Verso la terza boa gialla la bracciata si fa più fluida: sono serviti 20 minuti di nuotate per scaldarmi. Alla quarta boa gialla sono a metà strada, e rallento per dare un’occhiata al Garmin sul polso: sono 5 minuti sopra le previsioni. Accidenti. Andiamo Brena, non ti distrarre. Sono di nuovo alla prima boa e giro a sinistra, e qui arrivano i guai. È salita una leggera brezza da nord-ovest che spinge la boa davanti a me: ogni due bracciate litigo con il cordino della boa che si attorciglia sul mio braccio. Mi fermo una, due, cinque, forse dieci volte. Mi arrabbio. Impreco. Dal gommone dei Vigili del Fuoco vedo che mi osservano preoccupati. Vorrei dirgli: “E allora cosa avete da guardare? Vieni qui a darmi una mano, no?”.

In questi momenti il nervosismo è un cattivo consigliere. Riprendo a nuotare e capisco perché certi concorrenti, evidentemente più esperti, hanno fissato la boa molto vicina alla schiena, quasi attaccata all’osso sacro. La saggezza dei navigati nuotatori di acque libere. Ancora una boa, e un’altra ancora. Arrivo e attracco oltre l’ora di gara. Un po’ deluso e allo stesso tempo un po’ contento per la mia nuotata: non c’è niente di meglio che andare al bar a mangiare un Mottarello. In fondo me lo sono meritato.

 

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