Perché ci affascinano gli sport ad alto rischio?

Alex Honnold Banff

Basta, troppi rischi, non vale più la pena: la notizia che Clif Bar, produttore americano di barrette energetiche da sempre vicino al mondo degli action sport, ha tolto la sponsorizzazione ad alcuni dei suoi atleti di punta (parliamo di Alex Honnold, Dean Potter, Steph Davis, Cedar Wright e Timmy O’Neill) e verso alcune discipline (il Base jump, l’highline e l’arrampicata in free solo) ha destato scalpore e dibattito al punto che la stessa azienda si è sentita in dovere scrivere una lettera aperta alla comunità del climbing per spiegare le proprie ragioni (la potete leggere in originale qui).

La motivazione di questa decisione a suo modo epocale? Che “queste forme di sport spingono il confine troppo in là, dando all’elemento rischio un margine che la nostra azienda non vuole più sostenere” e che “non ci sentiamo più di sostenere e trarre beneficio da atleti che sopportano un tale carico di rischio in sport che non consentono margine di errore, che non prevedono una rete di sicurezza“.

Tutto questo in un momento in cui gli sport outdoor, action o estremi che dir si voglia stanno conquistando fette sempre più grandi di popolarità, fascino e praticanti come mai prima d’ora: pensate al fatto che secondo il Censis sarebbero alcune decine di migliaia gli italiani che hanno già provato il brivido del bungee jumping, o al successo di pubblico di rassegne cinematografiche come il Banff o l’European Outdoor Festival, sempre sold out.

Ma allora perché una scelta del genere da parte di un’azienda da sempre vicina a queste comunità sportive?

Abbiamo chiesto di aiutarci a rispondere a questa e ad altre domande alla professoressa Raffaella Ferrero Camoletto, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università di Torino,  autrice di “Oltre il limite. Il corpo tra sport estremi e fitness” (Il Mulino, 13 euro) e altri scritti sull’argomento del corpo spinto al limite e dei nuovi sport tra rischio, gioco e stili di vita.

Professoressa Ferrero Camoletto, partiamo dalle motivazioni che spingono alla pratica di questi sport
Una premessa: spesso si parla di motivazioni per lo più dal punto di vista psicologico. C’è chi ha parlato di un profilo di personalità, riconoscendo con il termine sensation-seeker degli individui alla ricerca di emozioni forti; chi ha parlato di fattore rischio, o fattore Ulisse, come di un meccanismo innato che spinge alla ricerca del limite ultimo. Ma secondo me questo approccio è solo parziale: credo ci siano anche ragioni culturali a spingere questo genere di atleti. Ragioni che li rendono più vicini alla vita della gente comune di quanto un certo sensazionalismo mediatico sostiene.

Quali sarebbero queste motivazioni culturali?
Bisogna partire dall’analisi di come sta cambiando la pratica sportiva e più in generale la concezione del corpo nella società contemporanea. Molti pensano che chi pratica questi sport cerchi la morte, in realtà è esattamente il contrario: già nel 1991 con il suo libro “Passione del rischio” l’antropologo francese David Le Breton aveva capito che questi sport cosiddetti estremi sono dei rituali di vita, non di morte. Chi li pratica cerca la conferma del proprio sé e del proprio essere degno di stare al mondo, e questa ricerca del senso e della misura della nostra esistenza è scattata nel momento in cui son venuti meno altri criteri, altre forme culturali e altre forme sociali attraverso le quali percepivamo noi stessi nel mondo.

Quindi il bisogno di metterci alla prova nasce dal bisogno di capire chi e cosa siamo?
In questi sport la sfida è sia esterna, la natura, che interna, le nostre competenze e capacità: misurarsi con questa doppia sfida è un modo per capire il proprio valore.

C’è però sempre una componente non controllabile di pericolo a cui ci si espone
Sì, queste sono pratiche sportive di volontaria esposizione a un potenziale rischio. Ma non bisogna confondere pericolo e rischio: chi pratica l’estremo descrive le proprie esperienze come un lavoro per arrivare a spostare i limiti della propria competenza attraverso sfide misurate alle proprie capacità. Sono pratiche di progressiva acquisizione di una forte consapevolezza di sé e delle proprie capacità, pratiche che coinvolgono il corpo come progetto. E in esse è compresa anche la capacità di saper rinunciare, di sapersi fermare: chi pratica questi sport sa benissimo che i limiti sono plastici, modificabili, e che la rinuncia è sempre temporanea.

Ma allora quale modello veicolano queste pratiche sportive?
Quello di un individuo capace di prendere dei rischi nel senso positivo del termine: il modello di un individuo ‘imprenditore’, capace di cogliere le occasioni, un uomo autoresponsabilizzato, cosciente di sé, e perciò positivo, vincente. Non a caso l’immaginario di queste pratiche sportive è usato non solo da marchi a loro vicini e affini, ma anche per prodotti apparentemente distanti che vogliono associarsi a idee di creatività e plasticità nell’affrontare le trasformazioni di ogni giorno.

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