Materiale e abbigliamo outdoor: fatto per la natura, potrebbe rivoltarlesi contro. Sono queste le accuse di Greenpeace che, analizzando in laboratorio una quarantina di capi firmati dai marchi più famosi del settore, ha scoperto che la maggior parte contiene PFC, una sostanza chimica dannosa sia per l’ambiente, sia per l’uomo.
Sulla pagina di Detox, la campagna lanciata dall’ONG per combattere l’utilizzo di queste particelle nell’industria tessile, si legge che «I PFC sono sostanze chimiche pericolose per l’ambiente, persistenti e durevoli che una volta rilasciate si degradano molto lentamente e si diffondono ovunque». Secondo Greenpeace, in seguito alle sue otto spedizioni dal Cile all’Italia passando per Turchia, Russia e Cina, sono stati trovati residui di PFC anche in laghi isolati, nel fegato degli orsi polari nell’Artico, nel sangue umano e anche nel latte materno.
Oltre ai danni che arrecano all’ambiente, alcuni test hanno rivelato che i PFC hanno effetti indesiderati anche sull’organismo e possono facilitare l’insorgenza dei tumori. Tuttavia, nonostante le controindicazioni, queste sostanze continuano ad essere utilizzate in grande misura specialmente dai brand outdoor per la loro ottima capacità di impermeabilizzare i tessuti tecnici.
Greenpeace ha esaminato un campione di quaranta indumenti e accessori – guanti, giacche, pantaloni, sacchi a pelo e tende – firmati dai marchi (tra cui Patagonia, Mammut, The North Face, Columbia, Jack Wolfskin, Norrona, Salewa, e Arc’teryx) scelti dalla community di utenti online. I risultati sono a dir poco inquietante: solo quattro capi non presentavano PFC (due giacche di Vaude e Jack Wolfskin, uno zaino Haglöfs e un paio di guanti della North Face). Dei restanti trentasei, diciotto ne contenevano in alta concentrazione.
Una soluzione a questo problema esiste, ma la spinta per il cambiamento deve venire dai consumatori. I PFC, infatti, non sono indispensabili per garantire l’impermeabilità dei capi: molte aziende si sono schierate contro l’utilizzo di queste particelle e hanno scelto di produrre solo capi PFC-free. Greenpeace ha lanciato una petizione per chiedere ad alcuni tra i brand più famosi di intraprendere la stessa strada. Per ora sono state raccolte più di 69mila firme.
Tuttavia, non sarebbe corretto affermare che i brand outdoor stanno dormendo sugli allori. Infatti, come reazione alla campagna di Greenpeace e alla nuova consapevolezza dei consumatori riguardo i PFC, alcuni dei marchi nel mirino della ONG ambientalista hanno tentato di intraprendere la strada della sostenibilità, almeno in parte.
Sul sito di Arc’terix per esempio si legge che dal 2014 l’azienda ha sostituito i dannosi PFC a catena lunga (C8) con quelli a catena corta (C6), meno pericolosi, ma pur sempre tossici. Inoltre questi brand sono partner di bluesign® system, ovvero un ente esterno che si occupa di certificare la sicurezza chimica dei tessuti. “Fino ad ora non abbiamo ancora trovato delle sostanze alternative ai PFC che garantiscano i nostri standard di perfomance e durabilità”, dichiara Arc’terix.
Più decisa, La Sportiva dichiara di aver “assunto l’impegno non solo di evitare materiali e tessuti che non contengano PFOA ma di eliminare del tutto i tessuti, trattamenti e materiali contenenti PFC in qualunque forma”. I capi della collezione Apparel sono infatti realizzati con tessuti PFC-free dal 2011. Anche questo brand ha adottato gli standard di certificazione Bluesign, optando per alternative ai PFC: poliestere e membrane basate su altri polimeri e trattamenti impermeabili a base poliuretanica.
North Face, tra i bersagli principali di Greenpeace insieme a Mammut, dichiara di aver sostituito i PFC a catena lunga con quelli a catena corta (C6) a partire dalla collezione di abbigliamento tecnico della primavera 2015. Secondo l’azienda, “nonostante tali trattamenti contengano sostanze chimiche fluorurate, il DWR (Durable Water Repellency – DWR) a catena corta è attualmente la migliore valida alternativa ai PFC a catena lunga”, anche se non garantisce la stessa resistenza dei capi allo sporco. Ma l’utilizzo di PFC C6 si tratta di una fase intermedia: “Entro la Primavera 2017, all’incirca il 30% dei nostri materiali destinati ai capi d’abbigliamento di nuova produzione con trattamento DWR saranno privi di fluorurati. Inoltre, ci siamo posti come obiettivo il passaggio entro il 2020 a capi realizzati al 100% con DWR privi di fluorurati”.
Mammut, che dal 2015 ha cercato di sostituire tutti i PFC a catena lunga con quelli a catena corta, risponde invece alle accuse della ONG affermando che “pur condividendo in linea di principio la campagna di Greenpeace, data l’attuale assenza di alternative ai fluorati che soddisfino gli elevati standard aziendali, al momento non siamo in grado di soddisfare completamente le richieste di Greenpeace”.
In attesa delle prossime mosse dei brand outdoor e dei risultati della petizione di Greenpeace, i consumatori possono sempre leggere l’etichetta e scoprire se il capo che si sta per acquistare è PFC-free oppure no.
©RIPRODUZIONE RISERVATA