Reinhold Messner: così è nata la mia passione per l’estremo

Reinhold Messner è stato protagonista di una serata organizzata a Sirtori (LC) dalla catena di negozi Sport Specialist: video sul maxi schermo, fotografie, racconti di vita, aneddoti di montagna. Reinhold sul palco e 3mila persone appese alle sue labbra, numeri e suggestioni da rockstar. Noi c’eravamo, ecco le quote più gustose della serata.

“Ho un rispetto infinito per George Mallory [l’alpinista inglese che ha preso parte ai primi tre tentativi di ascensione sull’Everest, dove perse la vita nel 1924, ndr]. Lui è arrivato a poche decine di metri dalla vetta indossando degli scarponi approssimativi con una manciata di chiodi infilati nella suola. Io con quell’attrezzatura, da giovane, non sarei salito nemmeno sul Monte Bianco.”

“Perché andiamo in montagna? Ci sono tante motivazioni diverse quanti sono coloro che si pongono la domanda. Non c’è una risposta giusta e una risposta sbagliata. C’è solo da chiedersi: è possibile o non è possibile? E questo vale anche per chi non sale esattamente sull’Himalaya…”

“Io ho sempre voluto salire sull’Everest in stile alpino: una spedizione di poche persone, leggera, niente corde fisse e soprattutto niente ossigeno. Del resto, ai miei tempi sarebbero state indispensabili almeno sette bombole da 7 kg l’una per andare e tornare. Non volevo fare lo sbruffone, ma non potevo salire con 50 kg di bombole, più la tenda, i viveri, il sacco per dormire, il fornello, le corde e i ramponi. Se volevo salire in stile alpino dovevo imparare a salire senza l’aiuto dell’ossigeno.”

“Medici e alpinisti a quei tempi concordavano sul fatto che fosse impossibile salire in cima senza bombole. Sapevo bene che la vita lassù non può resistere per più di qualche minuto. Servono almeno 4 o 5 settimane di acclimatamento per far sì che si produca la giusta concentrazione di globuli rossi. La parte più impegnativa da scalare è proprio subito dopo il campo base, 1000 metri di dislivello. Più ti avvicini alla vetta, più le gambe sono molli. A ogni passo bisogna fare una sosta di 20 respiri profondi per prendere fiato.”

“Siamo animali sociali e trascorriamo una vita borghese. Poi ogni tanto qualcuno impazzisce e ci diamo all’estremo, alla ricerca dei nostri limiti. E se abbiamo la fortuna di arrivare in cima, tornare giù equivale a una rinascita. Capiamo che la vita nuda è il patrimonio più grande che abbiamo. E abbiamo così la possibilità di riempirla di cose nuove. Vedo la mia salita sull’Everest non da un punto di vista emotivo, ma come una grande esperienza che mi è servita dopo, che mi ha dato forza per i miei progetti futuri e per andare oltre.”

“Dopo la morte di mio fratello sul Nanga Parbat ero molto triste. Attorno al mio letto di ospedale, dove mi avevano amputato le dita dei piedi congelate, si raccoglievano amici e parenti che mi invitavano a lasciar perdere la montagna, a rimettermi a studiare e a fare qualcosa di serio nella mia vita. Io non potevo cedere. E il Sud Tirolo dove abitavo mi andava stretto. Otto anni dopo risalivo da solo il Nanga Parbat aprendo una via nuova. Dovevo coltivare e far rivivere i miei sogni. Era l’unico modo per far rivivere anche mio fratello con cui li avevo condivisi”.

Credits foto: Cristina Risciglione / crphotographer.it

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