“Non ti farò aspettare”, il libro sull’alpinismo di Nives Meroi

Gli occhi azzurri di Nives Meroi sono sereni e malinconici, la bocca schiusa in un sorriso e le mani composte mentre stringono le ginocchia accavallate. Quando all’Adventure Outdoor Fest di San Candido la scalatrice di origini bergamasche ha presentato il suo nuovo libro “Non ti farò aspettare” (Rizzoli, 2015, 190 pagine, 14,45 euro), in compagnia dello scrittore e amico di cordata Erri De Luca e alla giornalista Fausta Slanzi, sembrava una ragazzina modesta ed emozionata. È così che si presenta una delle più grandi alpiniste di tutti i tempi che ha già scalato dodici Ottomila, sempre con lo stile sobrio di chi con le sue imprese non vuole in nessun modo intaccare la montagna.

Il romanzo narra la passione per le vette che accomuna Nives e il suo compagno Romano Benet, ma è anche una storia di amore e lotta per la vita. Insieme hanno scalato quasi tutte le più alte cime del mondo, inaugurando un vero e proprio alpinismo di coppia che apre una nuova dimensione di scalata meno individualista, portando in alta quota la stessa intimità domestica e la fiducia che uniscono due persone innamorate. Le pagine del libro raccontano la storia della loro tentata ascesa al Kangchendzonga – la terza montagna più alta del mondo (8586 m) – nel 2009, senza ossigeno né portatori, e della vicenda che ne è seguita.

Quella volta infatti accadde qualcosa di strano: a tenere il passo fu Nives e non Romano, di solito sempre in prima fila, che rivelò all’alpinista di sentirsi troppo debole per continuare oltre i 7500 m. Fu in quel momento che il compagno propose a Nives di proseguire da sola per completare il suo traguardo sul quattordicesimo Ottomila, mentre lui l’avrebbe attesa al campo base. “No, non ti farò aspettare”, gli rispose lei anteponendo alla gloria l’amore e il rispetto. E da qui il titolo del libro.

Ma la scalata che iniziarono sulle pareti del Kangchendzonga proseguì una volta tornati a casa, quando Romano scoprì con una serie di esami che la debolezza provata sulla montagna era il sintomo di una grave aplasia midollare. Dal 2009 al 2014 si susseguirono cure fallimentari, finché il secondo trapianto di midollo finalmente funzionò riportando il compagno di Nives di nuovo alla vita.

“Quando Romano è guarito abbiamo deciso di ripartire da dove ci eravamo fermati”, ha raccontato Nives. “Siamo tornati sull’immenso Kangchendzonga e, nonostante le cattive condizioni meteo, siamo saliti fino alla vetta. Una volta in alto, emozionati e felici, sapevamo di non essere soli: con noi c’era anche l’anonimo donatore di midollo che aveva permesso a Romano di essere lì in quel momento”.

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