La notizia è che nello Stretto di Magellano nascerà davvero il Parco nazionale di Capo Froward: si trova nell’estremo sud del continente americano, dove la Patagonia cilena sfuma nell’Antartide e la terra sembra finire, e proteggerà circa 150mila ettari di foreste, torbiere, ghiacciai e coste. È l’ultimo tassello (per ora) del sogno di Douglas Tompkins, il fondatore di The North Face, morto nel dicembre 2015, a 72 anni, ribaltandosi in kayak nelle acque gelide del Lago General Carrera, al confine tra Cile e Argentina. Viveva in Cile da anni, aveva investito tempo, energie e risorse personali per proteggere ed esplorare quelle terre selvagge e quei ghiacciai che tanto amava.
Due anni dopo, nel marzo del 2017, sua moglie e vedova Kristine McDivitt Tompkins fece al Cile la più grande donazione di terra della storia (ne avevamo scritto qui), a una condizione: l’impegno formale di costituire 5 nuovi parchi naturali per un’area totale che sarà di 3 volte la somma dei territori dei parchi di Yosemite e Yellowstone. In tutti questi anni Kristine ha portato avanti la visione di Douglas con una una determinazione straordinaria. Ha negoziato con i governi, convinto le comunità locali, gestito opposizioni e sospetti (in particolare quelli che la accusavano di lavorare contro lo sviluppo e la modernizzazione di quelle terre).
Cosa ci insegna il Parco nazionale di Capo Froward voluto dal fondatore di The North Face ai confini del capitalismo predatorio
E ora il nuovo Parco nazionale di Capo Froward è l’ultimo tassello in ordine di tempo di questa visione. Un’area che copre circa 150mila ettari tra foreste, torbiere, ghiacciai e coste sullo Stretto di Magellano, un rifugio per specie in pericolo, e l’impegno a dimostrare che l’ecoturismo nelle aree protette sarebbe in grado di generare ben 270 milioni di dollari all’anno, dimostrando che la conservazione non è solo ideale morale ma anche opportunità economica sostenibile per le comunità locali.
Il protocollo firmato dal Presidente cileno Gabriel Boric mette sotto protezione un’area per lo più inesplorata di più di 121mila ettari. La Ruta de Los Parques è una rete di 17 parchi nazionali che collega più di 60 comunità tra Puerto Montt e Capo Horn, per un totale di 2735 km. Sono più di due milioni di ettari complessivi, tre volte Yellowstone e Yosemite messi insieme. Ma soprattutto sono uno spazio dove l’huemul e l’oca testabianca possono ancora esistere, dove i ghiacciai possono continuare il loro lento lavoro di millenni, dove il silenzio non è interrotto dal rumore della speculazione.
Ma andando oltre la notizia, il nuovo Parco nazionale di Capo Froward è un simbolo. La prova vivente che anche nel capitalismo del XXI secolo si può scegliere la sottrazione invece dell’accumulo, la custodia invece del possesso, l’essere invece dell’avere.

C’è infatti qualcosa di profondamente sovversivo e simbolico dei tempi che viviamo in questo gesto che va oltre l’ambientalismo. In un’epoca in cui i miliardari della tecnologia accumulano ricchezze superiori al PIL di intere nazioni e potere superiore a quelli di organizzazioni sovranazionali, ci sono imprenditori (come Tompkins ma anche Yvon Chouinard, il fondatore di Patagonia, che ha donato l’intera azienda a un’organizzazione no profit) che hanno fatto qualcosa di apparentemente incomprensibile: hanno rinunciato a tutto. Non per santità o senso di colpa, ma per coerenza. Una coerenza che mette a nudo tanto l’ingordigia del capitalismo predatorio quanto l’ipocrisia di quello che i critici chiamano “filantrocapitalismo“: l’arte di sembrare generosi senza rinunciare a nulla.
Il capitalismo che si divora
Per capire la portata rivoluzionaria dei gesti di Tompkins e Chouinard, dobbiamo prima guardare in faccia il nostro tempo. Il capitalismo predatorio contemporaneo non si limita più a estrarre valore dal lavoro o dalle risorse naturali: estrae valore dall’esistenza stessa. Dalle nostre attenzioni e relazioni (le piattaforme social), dalle nostre necessità quotidiane (i marketplace), dai nostri bisogni primari (sicurezza, sanità, casa, cibo). È un sistema che trasforma ogni aspetto dell’umano in merce, ogni crisi in opportunità di profitto (la Gaza Riviera disegnata dal genero di Trump, Jared Kushner), ogni diritto in servizio a pagamento.
Non si tratta banalmente di avidità individuale, ma di una logica sistemica che permea ogni interstizio della società. Quando un algoritmo decide quali contenuti vedere, quali notizie leggere, quali persone incontrare, quali prodotti comprare, non sta offrendo un servizio neutrale: sta colonizzando l’immaginario e le scelte collettive. Quando un fondo di investimento compra migliaia di abitazioni per affittarle a prezzi insostenibili, non sta semplicemente facendo affari: sta privatizzando il diritto fondamentale all’abitare. Quando una corporation farmaceutica decide quali ricerche finanziare basandosi solo sul ritorno economico, non sta gestendo risorse: sta determinando chi merita di vivere e chi no. Quando una società tecnologica ha in subappalto esclusivo i temi della sicurezza nazionale non sta facendo l’interesse dei cittadini ma scelte politiche sensibili e discriminanti in assenza di delega democratica.
È quello che potremmo chiamare, parafrasando il filosofo Byung-Chul Han, un “capitalismo psicopolitico”: non domina solo i corpi e le risorse, ma colonizza le menti, i desideri, e perfino i sogni di cambiamento. Perché lo fa con un’efficienza tale che spesso non ce ne accorgiamo nemmeno e anzi, spesso convincendoci a difenderlo, convinti che non esistano alternative.
L’inganno della filantropia
Ma non è tutto qui. Perché poi c’è anche la versione apparentemente redenta di questo moderno capitalismo predatorio: il filantrocapitalismo. Bill Gates che “dona” miliardi attraverso la sua fondazione; Jeff Bezos che promette 10 miliardi per il clima; Mark Zuckerberg che “regala” il 99% delle sue azioni di Facebook, giusto per citare i più noti. Sembrano gesti nobili, quasi eroici, perfettamente in linea con quell’idea di give back così americana. Ma c’è un problema di fondo che ricercatori come la sociologa canadese Linsey McGoey hanno analizzato e smascherato: questi non sono doni, sono investimenti camuffati da generosità. O generosità che genera ulteriore profitto.
La differenza è sostanziale. Quando Gates “dona” miliardi all’agricoltura africana, mantiene il controllo su come quei soldi vengono spesi, influenza le politiche agricole di interi continenti, orienta la ricerca verso soluzioni brevettabili (e quindi redditizie), favorisce spesso le stesse corporations che hanno contribuito alla sua fortuna. Non è complottismo: è la logica intrinseca del sistema, è una forma di “ricolonizzazione” dove il potere economico si traveste da benevolenza per consolidare il proprio dominio.
Il filantrocapitalismo ha una caratteristica peculiare: non mette mai in discussione il sistema che ha generato quella ricchezza. Anzi, lo rinforza. La ricchezza estrema non è un effetto collaterale del capitalismo contemporaneo: è la sua logica profonda. Concentrare ricchezza in poche mani significa concentrare potere in poche mani, e quel potere viene poi “restituito” alla società secondo le priorità e la visione di chi lo detiene, non attraverso processi democratici, di giustizia sociale o interesse superiore.
Max Weber, nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, aveva intuito come l’accumulazione potesse essere sublimata in virtù attraverso la dottrina della predestinazione: il successo economico come segno di grazia divina. Ma i filantrocapitalisti contemporanei hanno operato una sintesi ancora più raffinata: l’accumulo infinito è già di per sé virtuoso, perché “creerà le risorse” per risolvere i problemi del mondo. È una teologia del capitale che si autoassolve in tempo reale.
La rivoluzione della sottrazione
Douglas Tompkins e Yvon Chouinard rappresentano qualcosa di radicalmente diverso e rivoluzionariamente contrario. Non sono santi, non sono asceti. Sono stati imprenditori di successo che hanno costruito imperi commerciali. Ma a un certo punto hanno compiuto una scelta che nel capitalismo contemporaneo appare incomprensibile: hanno smesso di accumulare e hanno iniziato a restituire. Non in modo simbolico, non mantenendo il controllo, non attraverso fondazioni di famiglia. Hanno perso volontariamente, deliberatamente, irreversibilmente.
La differenza non è quantitativa, è ontologica. Tompkins ha comprato terre non per possederle, ma per toglierle al mercato. Per sempre. Ha sottratto centinaia di migliaia di ettari alla logica dell’estrazione, del profitto, dello sfruttamento. Ha creato vuoti nel tessuto del capitalismo, spazi dove la natura può esistere al di fuori della logica della merce. Secondo una stima del National Geographic, gli sforzi dell’imprenditore americano hanno protetto più terra rispetto a quelli di qualsiasi altro privato fino ad oggi.
Quando nel 2022 Chouinard ha donato Patagonia (valutata 3 miliardi di dollari) a un trust ambientale, ha scritto una frase che suona come un manifesto: “La Terra è ora il nostro unico azionista“. Non è retorica. È l’applicazione letterale del concetto di stewardship (o “gestione etica e responsabile delle risorse”) che i popoli indigeni conoscono istintivamente da millenni: noi non possediamo la terra, ne siamo custodi temporanei. Erich Fromm, in Avere o essere, aveva analizzato questa distinzione fondamentale tra il “modo dell’avere” (possedere, accumulare, controllare) e il “modo dell’essere” (esistere in relazione, custodire, condividere). Ma Tompkins e Chouinard hanno fatto un passo ulteriore: hanno trasformato l’avere in essere e poi l’essere in restituire.
È qui il nucleo rivoluzionario dei loro gesti: non hanno aspettato di morire per “lasciare in eredità”. Non hanno creato fondazioni che portano il loro nome e perpetuano il loro controllo. Non hanno usato la filantropia per orientare politiche pubbliche secondo la loro visione. Hanno semplicemente rinunciato. Durante la vita. In modo irreversibile. Senza chiedere nulla in cambio se non che quella terra fosse protetta per sempre.
Un gesto così radicale da essere semplicemente inconcepibile nella logica del capitale: qualcuno che rinuncia al controllo della propria ricchezza deve avere un secondo fine. Eppure non c’era nessun secondo fine. O forse sì: il secondo fine era il mondo stesso, la sua bellezza, la sua sopravvivenza.
Il capitalismo umanistico come orizzonte
Esiste allora una terza via tra il capitalismo predatorio e il suo travestimento filantropico? La nozione di “capitalismo umanistico”, per quanto possa sembrare ossimorica, cerca di rispondere a questa domanda. Non si tratta di addolcire il capitalismo con qualche concessione sociale o di colorarlo di verde con operazioni di greenwashing. Si tratta di riconoscere che l’impresa economica non può essere svincolata dalla responsabilità verso le persone e l’ambiente, che il profitto non può essere l’unico parametro di successo, che la proprietà implica doveri oltre che diritti.
È interessante notare come questo approccio non nasca da idealismo naïf, ma spesso da una comprensione profonda proprio dei limiti del capitalismo tradizionale. Patagonia, sotto la guida di Chouinard, non è mai stata un’azienda “normale”: ha sempre messo al centro la qualità duratura dei prodotti (contro la logica dell’obsolescenza programmata), la trasparenza della filiera, l’attivismo ambientale. Ha persino donato gli sgravi fiscali di Trump all’ambiente, un gesto che è contemporaneamente politico ed etico.
Ma attenzione: il capitalismo umanistico non è quello delle corporations che pubblicano report ESG mentre continuano a inquinare, sfruttare, eludere tasse. Non è quello delle “certificazioni” che servono più al marketing che alla sostanza. È qualcosa di più radicale: è riconoscere che un’azienda non è solo un veicolo per massimizzare il ritorno per gli azionisti, ma un organismo inserito in un tessuto sociale ed ecologico oltre che economico, con responsabilità che vanno oltre il bilancio.
Weber aveva visto nell’etica protestante il motore nascosto del capitalismo: l’accumulazione come vocazione, il lavoro come preghiera, il successo come segno di elezione divina. Ma cosa succede quando quell’etica viene invertita? Quando il successo non si misura più nell’accumulo ma nella capacità di lasciare andare? Quando la vocazione non è più produrre sempre di più, ma custodire ciò che abbiamo? Quando l’elezione si manifesta non nel possesso ma nella rinuncia?
La geografia della resistenza
Thoreau, che Tompkins amava citare, scriveva: “Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno“. In Walden aveva sperimentato su di sé questa verità, ritirandosi nei boschi per scoprire quanto poco fosse davvero necessario per vivere (e forse vale davvero la pena fare un pellegrinaggio a Walden Pond, come abbiamo fatto noi). Ma Tompkins ha fatto qualcosa di più radicale: ha dimostrato che si può costruire un impero e poi scegliere di perderlo, deliberatamente, come atto finale di creazione. Ha applicato la massima di Thoreau non solo alla propria vita personale, ma al proprio capitale, alle proprie proprietà, al proprio potere.

C’è qualcosa di profondamente “thoreauniano” nel gesto di acquistare terre selvagge non per “svilupparle” ma per lasciarle essere. È il rifiuto della logica del “miglioramento” capitalistico, che vede in ogni spazio non sfruttato uno spreco, in ogni risorsa non estratta un’opportunità perduta. È riconoscere che a volte la cosa migliore che possiamo fare è… niente. Proteggere, custodire, e poi toglierci di mezzo.
La domanda che ci lascia
Il vero lascito di Tompkins e Chouinard quindi non è ambientale, è esistenziale. Ci pongono una domanda scomoda: se loro hanno potuto rinunciare a miliardi, a cosa possiamo rinunciare noi? Non necessariamente in termini economici (la maggior parte di noi non possiede imperi commerciali), ma in termini di logica di vita. Possiamo immaginare un successo che non si misuri nell’accumulo? Possiamo concepire una realizzazione che passi per la sottrazione invece che per l’addizione?
In un’epoca di influencer che mercificano ogni aspetto della propria esistenza, di imprenditori tech che promettono di “cambiare il mondo” mentre consolidano monopoli, di governi che privatizzano diritti fondamentali, il gesto di Tompkins è un glitch nel sistema, un’anomalia nella matrice. Dimostra che si può scegliere diversamente.
Il capitalismo predatorio ci vuole consumatori insaziabili. Il filantrocapitalismo ci vuole grati beneficiari della generosità dei ricchi. Il capitalismo umanistico, quello vero, ci chiede di essere cittadini responsabili, custodi consapevoli, capaci di immaginare forme di ricchezza che non passino per il possesso. Ci chiede di misurare il valore delle cose non in termini di prezzo ma di significato, non in termini di utilità ma di bellezza, non in termini di profitto ma di eredità per chi verrà dopo di noi.
Ai confini del mondo e del capitalismo
Nello Stretto di Magellano, dove l’esploratore passò cercando una rotta verso le spezie e la ricchezza, dove generazioni di capitani hanno rischiato la vita per il commercio e il profitto, sta quindi per essere istituito un parco che non produrrà nulla, non genererà dividendi, non massimizzerà alcun ritorno per gli investitori. Esisterà semplicemente. Le sue foreste continueranno a crescere secondo ritmi che non hanno nulla a che fare con le logiche dell’uomo. I suoi ghiacciai continueranno la loro lenta danza millenaria. I suoi animali continueranno a vivere e morire secondo logiche che precedono e supereranno l’economia umana.

È questo il vero gesto rivoluzionario: creare spazi dove il capitalismo non può entrare. Non perché sono protetti da leggi (le leggi cambiano), ma perché sono stati definitivamente sottratti alla logica del mercato. Non sono in vendita. Non lo saranno mai. È un atto di sottrazione permanente, irreversibile, radicale.
Douglas Tompkins è morto come l’uomo più ricco del mondo. Non perché possedesse miliardi (quelli li aveva già persi, restituiti, dissolti nel paesaggio patagonico), ma perché aveva applicato alla lettera la massima di Thoreau: era ricco del numero di cose di cui aveva saputo fare a meno. Aveva fatto a meno del controllo, del potere, della proprietà. Aveva scelto la ricchezza vera: quella di saper perdere, di saper lasciare andare, di saper restituire.
La sua ultima parola sta nella domanda che ci lascia: cosa sei disposto a perdere per salvare ciò che ami? Quanto poco ti basta davvero per essere ricco? E quando avrai capito quanto poco ti serve, cosa farai con tutto il resto?
Ai confini del capitalismo, la logica del profitto si dissolve nelle acque gelide dello Stretto di Magellano per dirci una cosa semplice e rivoluzionario: che si può scegliere diversamente. Che l’unico gesto davvero distruttivo di un sistema che ci vuole tutti accumulatori compulsivi, è imparare l’arte dimenticata della restituzione.
E forse, solo forse, in quella scelta impossibile si nasconde l’unica speranza che abbiamo.
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