Microplastiche nel cibo: il rischio delle contaminazioni alimentari

Microplastiche nel cibo: il rischio delle contaminazioni alimentari

I polimeri sintetici sono comparsi alla fine del XIX secolo, intorno agli anni 1860, ma è stato solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che è iniziato davvero il “boom della plastica”, classificando tale materiale come uno dei più diffusi sin dai suoi inizi come resina fenolo-formaldeide. Inizialmente concepita per migliorare le condizioni di vita umane, la plastica è oggi diventata una vera minaccia per l’ambiente e per la sicurezza del pianeta e di tutti coloro che lo abitano.

Microplastiche nel cibo: il rischio delle contaminazioni alimentari

Basti solo pensare al caffè che, negli ultimi anni, ci viene servito in tazze di carta: apparentemente una scelta green ma che in gran parte dei casi presenta un packaging misto di carta e plastica che spesso porta al rilascio di sostanze chimiche dannose e di microplastiche e può quindi danneggiare gli organismi viventi se finisce nella natura. I contenitori monouso hanno, infatti, da sempre il difetto di essere rivestiti con un sottile strato di plastica impermeabilizzante che si è rivelato nel tempo come un potenziale rischio elevato per l’ambiente.

La plastica è presente in tutti gli ecosistemi dell’ambiente

Attualmente, la plastica è presente in tutti gli ecosistemi dell’ambiente (aria, acqua e suolo), soprattutto a causa dell’ampia diffusione dell’imballaggio alimentare presente sul mercato – per prodotti come latticini, carne, pesce o bevande, compresa l’acqua minerale – che è in gran parte realizzato in plastica o nel formato misto di carta e plastica.

Il contatto tra il cibo e l’imballaggio è quasi sempre la causa di trasferimenti reciproci tra contenitore e contenuto. La qualità dei prodotti alimentari è, quindi, influenzata dall’interazione con le sostanze presenti nella composizione dell’imballaggio, che a volte determina l’alterazione delle qualità nutrizionali e l’incidenza sulla sicurezza del consumo.

Microplastiche nel cibo: il rischio delle contaminazioni alimentari

La presenza di microplastiche è stata rilevata negli ecosistemi del suolo, nelle nuvole, nelle acque superficiali, nei sedimenti costieri, nelle sabbie delle spiagge, nei sedimenti d’acqua dolce e persino nel nostro sangue. Piogge e nevicate contengono un numero significativo di microplastiche, talvolta invisibili a occhio nudo. L’intensa diffusione della plastica associata alle scarse prestazioni dei sistemi di gestione dei rifiuti, inclusa la raccolta e la cattura a fine vita, ha portato a un accumulo massiccio di rifiuti plastici nell’ambiente con un tasso effettivo di riciclo che si attesta solo al 10%.

le catene alimentari subiscono una grave contaminazione

In questo scenario, le catene alimentari subiscono una grave contaminazione a causa delle emissioni di sostanze chimiche organiche idrofobe. L’acqua rappresenta uno dei principali veicoli per l’esposizione cronica alle microplastiche perché viene consumata quotidianamente ed è senza dubbio la fonte più importante di tali componenti nella nostra dieta; l’acqua viene utilizzata, ad esempio, in quantità considerevoli durante la preparazione delle pietanze, la pulizia e la sanificazione degli impianti di lavorazione alimentare. Tali particelle possono entrare nelle fonti di acqua potabile in diversi modi: dal deflusso superficiale (ad esempio dopo un evento di pioggia) agli effluenti di acque reflue, agli straripamenti dei sistemi fognari combinati, agli effluenti industriali, ai rifiuti plastici degradati e alla deposizione atmosferica (OMS 2019). Le bottiglie di plastica e i tappi utilizzati nell’acqua in bottiglia possono anche costituire fonti di microplastiche nell’acqua potabile. Sebbene si possa ipotizzare che la fonte di contaminazione per alcuni prodotti, come la birra o le bevande analcoliche, sia l’acqua; per altri, la contaminazione potrebbe avvenire attraverso l’ambiente, altri componenti costitutivi, processi produttivi o materiali di confezionamento.

Quanta plastica mangiamo?

Secondo uno Studio dell’Università di Newcastle, ogni settimana ingeriamo fino a 2.000 piccoli frammenti, equivalenti a circa 5 grammi, il peso di una carta di credito; annualmente, la media di assunzione si attesta oltre i 250 grammi. La maggior parte di queste particelle, che misurano meno di 5 millimetri, viene assorbita attraverso l’acqua che consumiamo, sia proveniente da bottiglie che dal rubinetto.

Benché i prodotti del settore ittico risultino essere tra i più contaminati, non fanno eccezione il sale da cucina (rilevate in ben 18 ricerche), il latte, il miele, il riso, lo zucchero, la frutta e la verdura, varie bevande e persino la birra, spesso confezionata in bottiglie di vetro o lattine di alluminio. La fonte di contaminazione nei pesci, molluschi e crostacei è chiaramente identificata come proveniente dal mare. Al contrario, l’origine delle microplastiche riscontrate negli altri prodotti risulta meno definita, anche se – come dicevamo prima – si sospetta possa derivare principalmente dalle pellicole di confezionamento e dagli imballaggi. Si tratta di una situazione drammatica per la salute umana e quella del pianeta.

Microplastiche nel cibo: il rischio delle contaminazioni alimentari

I ricercatori dell’Università di Göteborg lo hanno dimostrato in uno studio che testa l’effetto di tazze monouso realizzate con materiali diversi sulle larve di zanzara. I risultati hanno dimostrato che i rifiuti mal gestiti hanno la capacità di influire negativamente sulla biota acquatica. Gallo et al. (2018) hanno evidenziato che gli impatti ambientali e i costi economici della produzione e del consumo di plastica, uniti agli sprechi, peggioreranno nel breve termine se non verranno adottate immediatamente misure preventive

Da una Ricerca dell’Università di Amsterdam sul rapporto sangue e microplastica è emerso, inoltre, che su 17 dei 22 volontari sottoposti ad esame, sono state individuate microplastiche di varie tipologie, con una concentrazione media di 1,6 microgrammi per millilitro. Il polimero più frequente è risultato essere il polietilene tereftalato (o PET, utilizzato ad esempio per la produzione di bottiglie), rilevato in metà dei partecipanti positivi. A seguire, il polistirene (36%), il polietilene (23%) e il polimetil metacrilato (5%).

L’impatto sulla salute delle persone

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), gli impatti delle microplastiche sull’uomo possono manifestarsi attraverso rischi di natura fisica, chimica o microbiologica. Da un punto di vista fisico le microplastiche[9] e le nanoplastiche possono superare le barriere biologiche, come quelle intestinali, ematoencefaliche, testicolari e persino la placenta, causando danni diretti, soprattutto agli apparati respiratorio e digerente, che sono i primi ad entrare in contatto con le microplastiche.

I rischi chimici, invece, sono provenienti dalla presenza di contaminanti come plasticizzanti (ftalati, bisfenolo A) o contaminanti persistenti (ritardanti di fiamma bromurati, idrocarburi policiclici aromatici, policlorobifenili) nelle microplastiche. Molti di questi contaminanti, in quanto interferenti endocrini, possono provocare danni al sistema endocrino, causare problemi nella sfera riproduttiva e nel metabolismo, sia nei figli di genitori esposti alle microplastiche durante la gravidanza, sia in età adulta a seguito di esposizione nelle fasi iniziali della vita (neonatale, infanzia, pubertà).

Inoltre, le microplastiche possono agire come veicoli per microrganismi patogeni che, aderendo alla loro superficie, possono causare malattie. Batteri come Escherichia coli, Bacillus cereus e Stenotrophomonas maltophilia sono stati individuati su microplastiche raccolte al largo delle coste del Belgio.

Lo scenario normativo, il dibattito tra riciclo e riuso e la rinascita della carta

In questo scenario il dibattito tra riciclo e riuso assume un ruolo centrale. Partiamo da un dato: benché la teoria del riciclo sembri essere una soluzione promettente ed efficace, in realtà solo il 10% della plastica viene riciclato, anche a causa delle migliaia di polimeri e sostanze chimiche, che rendono il processo molto complesso.

Da un punto di vista normativo, la Direttiva 94/62/EC (PPWD – Packaging and Packaging Waste Directive) sintetizza l’ambizione di un modello economico sostenibile e circolare. Nella sua prima versione del 2015 la Commissione ha fissato degli obiettivi per la prevenzione e la riduzione dei rifiuti da imballaggio con finalità di riciclo e riuso. Tuttavia, nonostante i propositi, è necessario un aggiornamento della normativa. A quasi dieci anni di distanza la Direttiva non è stata in grado di affrontare il crescente impatto ambientale degli imballaggi: il packaging continua, infatti, ad essere poco riciclabile e realizzato con troppo poco materiale riciclato.

Inoltre, ci sono anche grandi differenze nel modo in cui la Direttiva viene recepita da parte dei singoli Stati membri; per armonizzare l’attuazione nel continente la Commissione ha proposto nel novembre 2022 una revisione della Direttiva e la trasformazione in Regolamento (PPWR – Packaging and Packaging Waste Regulation). Sebbene la nuova normativa rappresenti un passo avanti significativo, non è però ancora sufficiente per raggiungere, entro pochi anni, obiettivi significativi in termini di riduzione della plastica.

Il packaging riutilizzabile può essere una soluzione sostenibile?

Il packaging riutilizzabile può essere una soluzione sostenibile, nelle sue dimensioni ambientali, sociali ed economiche, solo per alcuni campi molto specifici di applicazione, ovvero in contesti chiusi e strutturati laddove è possibile centralizzare e monitorare la gestione dei resi e realizzare sistemi di lavaggio efficienti. Esempi in tal senso sono gli edifici pubblici, gli aeroporti o le mense scolastiche.

Secondo EPPA (European Paper Packaging Alliance) il passaggio al packaging riutilizzabile rischierebbe di aumentare gli impatti socio-ambientali della ristorazione, creando dei rischi di contaminazione per gli utilizzatori finali. Per evitare ciò è necessario un maggiore consumo di materiali ed estrazione di risorse per la realizzazione dei prodotti adatti al riuso; un incremento del consumo di acqua per il lavaggio; costi elevati di adeguamento per i piccoli business, creando delle barriere d’ingresso che limitano l’offerta ristorativa europea e l’esperienza dei consumatori.

Per questo motivo, sarebbe auspicabile un rapido approfondimento da parte dell’EFSA e un intervento normativo per tutelare i consumatori dal rischio di rilascio di microplastiche nel packaging alimentare in plastica.

Oltre ad intraprendere azioni di prevenzione e riduzione di rifiuti non riciclabili, di armonizzazione della gestione e delle procedure negli Stati Membri e degli strumenti volti a stimolare la domanda di materiali per sviluppare le filiere di riciclo – è cruciale investire in soluzioni tecnologiche e in materiali alternativi e adattabili al singolo contesto. Uno studio commissionato da EPPA ha rilevato che gli imballaggi monouso a base di carta generano, ad esempio, 2,8 volte meno emissioni di CO2 e utilizzano 3,4 volte meno acqua nei fast-food e piccoli ristoranti rispetto a un’alternativa riutilizzabile in plastica.

Il packaging monouso in carta

Il packaging monouso in carta, funzionalizzato con un coating minerale a base di Silice e perfettamente riciclabile, può essere un’ottima alternativa alla plastica monouso e multiuso, da un punto di vista di performance ambientali lungo tutto il ciclo di vita, di sicurezza e igiene per i consumatori e di costi per il sistema[13]. Il coating minerale a base di Silice funzionalizza un imballaggio in carta (FSC®, PEFC®) e lo rende resistente all’umidità, ai grassi, ai gas e alla temperatura. Un prodotto che non altera la riciclabilità del suo supporto, privo di plastica – che previene il rilascio di sostanze chimiche dannose e di microplastiche come può avvenire nelle altre tipologie di imballaggi – ed è quindi sicuro per il consumatore.

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Articolo di di Emiliano Caradonna, CEO di Qwarzo. | Photo by Jas MinNaja Bertolt JensenNareeta Martin 

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