Correre una maratona è nel nostro DNA

La scomparsa di un gene ha sviluppato la capacità di correre le lunghe distanze. Uno studio scientifico spiega perché corriamo una maratona

Correre una maratona è nel nostro DNA

Perché corriamo un maratona? Perché amiamo le corse sulle lunghe distanze? Forse perché ce l’abbiamo nel sangue: tutti abbiamo una sorta di gene del maratoneta, lo spiega la scienza.
Fra due e tre milioni di anni fa avvenne una mutazione genetica nell’uomo che ha contribuito a renderci migliori corridori sulle lunghe distanze.
Lo racconta una ricerca della University of California San Diego School of Medicine che in sostanza spiega come nel nostro patrimonio genetico esista una predisposizione all maratona. E che questa sia stata causata dalla perdita di un gene, chiamato CMAH.

Perché corriamo un maratona: lo studio scientifico sul DNA

Abbiamo visto come la scienza abbia individuato il gene che predispone alla morte improvvisa negli sportivi.
Abbiamo scoperto che chi è più portato all’avventura ce l’ha scritto nel DNA.
Abbiamo visto come anche la spiritualità è legata all’evoluzione del nostro patrimonio genetico..

Ora questo interessante studio sulle origini della corsa. Il paper è stato appena pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B. Il team americano ha condotto esperimenti sui topi, che sono stati privati del gene CMAH, che aveva provocato nel regno animale un salto evoluzionistico notevole, alterando molte caratteristiche degli esseri viventi, ad esempio modificando le percentuali di fertilità e spingendo a mangiare carne rossa.

Correre una maratona è nel nostro DNA

I topi sono stati messi a correre su un tapis roulant ed è stata valutata la loro capacità di esercizio rispetto a topi con il gene CMAH. Si è così notato un miglioramento nelle loro prestazioni.
I topi mostravano una maggiore resistenza alla fatica, un miglioramento nella respirazione mitocondriale e negli arti posteriori, con più capillari per aumentare l’apporto di sangue e ossigeno. (Abbiamo scritto anche dei Tibetani e della loro capacità di sopportare la mancanza di ossigeno dovuta a una mutazione genetica).

Tradotti in termini umani, i risultati spiegano come la mancanza del gene posa aver fornito ai primi ominidi un vantaggio selettivo nel passaggio dagli alberi alla vita di cacciatori-raccoglitori in campo aperto.

Come abbiamo sviluppato la capacità di correre sulle lunghe distanze

Durante quella mutazione genetica la cui collocazione è ancora imprecisa nel tempo i nostri antenati stavano passando dalle foreste alle aride savane dell’Africa.
La loro fisiologia e il loro scheletro stavano subendo un’accelerazione evolutiva rapida e impressionante: le gambe si allungavano, i piedi si ingrandivano e il corpo diventava più elastico.
Cominciavano a camminare eretti, usavano i muscoli dei glutei che si erano potenziati, le ghiandole sudoripare dissipavano il calore molto meglio di altri mammiferi più grandi.

Lo scopo di questo mutamento era dunque chiaro: essere più efficaci nella caccia.

Secondo gli scienziati americani i cambiamenti avvenuti con la perdita del gene hanno contribuito a rispondere all’esigenza umana di percorrere lunghe distanze senza stancarsi. I nostri avi riuscivano progressivamente a cacciare animali correndo a lungo anche sotto il caldo opprimente.

Il gene CMAH, la corsa, il diabete

Quando il gene CMAH mutò da due a tre milioni di anni fa, cambiò anche il modo in cui i successivi ominidi e gli umani moderni usavano gli acidi sialici – una famiglia di molecole di zucchero che ricopre le superfici di tutte le cellule animali.
Queste molecole servono come punti di contatto vitali per l’interazione con altre cellule e con l’ambiente circostante.

Ma la loro carenza si è dimostrata un vantaggio per noi. I ricercatori hanno spiegato come la perdita del gene CMAH e delle sue funzioni hanno di fatto migliorato la nostra capacità di correre sulle lunghe distanze e hanno sviluppato il sistema immunitario.

C’è anche un rovescio della medaglia, ovvero l’aumento del rischio di diabete di tipo 2 e del cancro associato al consumo di carne rossa.

“Sono un’arma a doppio taglio”, spiega il professor Ajit Varki. “Le conseguenze di un singolo gene perso e un piccolo cambiamento molecolare sembrano aver profondamente alterato la biologia e le abilità umane fin dalle nostre origini”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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