Le palestre e i rischi della transizione digitale

Le palestre e i rischi della transizione digitale

I fitness club in Italia e nel mondo sono in difficoltà. Ma molti lo erano prima del Covid. Una lunga lista di centri non aveva visione, assetto organizzativo, controllo dei costi adeguato. E non finisce qui. Tanti erano e sono ancora in affanno digitale, minacciati da eccellenti trainers, tecnici, consulenti usciti dalle organizzazioni perché visti come peso da scaricare. All’uscita di questi dalle organizzazioni, il livello dei servizi fitness si abbassava repentinamente e qualcuno si stizziva se nelle trattative i clienti provavano a tirar giù il prezzo perché “quell’istruttore” non c’era più. Effetti: già da anni, schiere di professionals agguerriti, sparsi in tutto il mondo, stanno proponendo servizi in proprio e di maggiore qualità rispetto a quella proposta dai centri che non possono più permettersi di pagarli.

E così adesso si giocheranno due partite: una sul territorio reale, l’altra sulla piattaforma digitale. E i centri fitness potrebbero perderle tutte e due.
Non si capisce perché questi fitness professionals, che lavorano su piattaforme istituzionali di network o organizzazioni ufficiali, non possano poi dirottare lavoro e clienti su piattaforme proprie. La più economica di tutte a costo zero? WhatsApp. In pochi minuti il programma è sul device del cliente più vicino e più lontano. E questa “transizione digitale” casereccia, che non richiede l’assunzione di un social media manager o di un esperto in keywords, va avanti da anni, ma sembra che pochi ne tengano conto come competitor a tutti gli effetti. Il colmo della disattenzione è che proprio la visibilità che il trainer ottiene appoggiandosi sulla piattaforma di uno o più club, garantisce quell’autorevolezza che si riverbera sull’acquisizione di clienti presso il suo studio. Detto questo, e si potrebbe dire anche molto altro ma sarebbe lunga, inutile pompare corsi su corsi gratuitamente se quegli stessi trainer che collaborano “ufficialmente” agiscono poi su strutture autogestite a costi contenutissimi e in già target.
Perché sono ancora loro, anzi, solo loro, che fanno quel primo passo che una volta veniva fatto dalla palestra in cui ci s’iscriveva. Dopo la “prova gratuita” ci si legava al centro per anni, perché c’era “quel” trainer con cui avevamo fatto la prova iniziale. Lontani ricordi di quando le cose funzionavano. E di quando il turn-over non c’era.

Ora ci si appresta a una battaglia fisica e digitale. E se quella fisica è già perduta perché il trainer bravo e digitalizzato lavora a spot su spazio (piccolo) fisico proprio o direttamente a casa, quella digitale sarà ancora più difficile perché non esiste palestra che abbia canale Youtube destinato ad ogni risorsa interna. Inutile venirne fuori andando a caccia di traffico su Instagram postando l’addome o il gluteo di turno: quei click non porteranno fatturato ma commenti. Soluzioni ce ne sono parecchie. Una? Allargare le community su segmenti non ancora presi in considerazione dai centri fitness né fisicamente né digitalmente. Come gli home-senior-client e i teenagers-client, interessati all’assistenza in chiave remotizzata per una fruizione del fitness home, per il challenge virtuale, per la fitness-gamification.

Questo sarebbe un primo passo, anzi sarebbe il secondo, vista la situazione descritta prima da risolvere al volo, ovvero quella del dualismo fisico e digitale del club trainer in staff. Il terzo passo sarà lanciare nuovi servizi (e non corsi) e tanti, tantissimi prodotti. Selezionando accuratamente nella filiera-tecnica, nella filiera-salutistica e anche nella non fitness-filiera, per coinvolgere quelle clientele non fitness-focalizzate che in palestra non ci verranno mai. Ma che sono clienti che aspettano e che non potremo catturare con la borsa o il corso on-line che, forse, non interessano neanche a loro.

Credits photo: it.depositphotos.com

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