Fotoreportage: sciare sui vulcani della Kamchatka

Kamtchatka Scialpinismo
Kamtchatka Scialpinismo
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Kamtchatka Scialpinismo

Il maestro di sci Alberto Negro è stato in Kamchatka a fare scialpinismo sui vulcani dell’Oriente russo. Questo è il suo racconto di quei giorni belli ed emozionanti.

La strada l’apriva un bulldozer. Era davanti a noi di qualche ora, un paio, forse meno. Tracciava la via nella neve altissima, incidendo un passaggio dove la natura aveva annullato ogni segno di vita. Apriva, allargava, fendeva la coltre senza sosta. Dietro di lui, tre camion in fila indiana. Mezzi di stazza sovietica, che trasportavano gasolio da consegnare a una base militare, su al passo in fondo alla strada. Arrancavano premendo sulle catene, procedevano lenti. Non capivamo bene perché ogni due o tre chilometri, piantate nella neve a lato, trovassimo bottiglie di birra vuote. Un segnale? Difficile dirlo.

Noi stavamo dietro, con le nostre motoslitte: Martino guidava quella a cui io ero attaccato con una corda, trascinando me, i miei sci e il nostro carico verso un apparente nulla. Igor, la guida, era seduto sull’altra. Dietro di lui, come appendici di uno strano motoscafo, Stefano e Lorenzo. “Bella storia”, mi ero detto quando mi avevano annunciato le quattro ore di viaggio in modalità traino. “Accidenti, chi diavolo me l’ha fatto fare?”, imprecavo adesso sobbalzando sulla neve strapazzata, dietro al bulldozer cingolato e ai tre camion che distribuivano ricordi di birra. Alla fine li abbiamo raggiunti. Si sono messi di lato, hanno fatto segno di andare. Solo lì abbiamo capito che le bottiglie conficcate nella strada come briciole di un emancipato Pollicino erano nient’altro che spazzatura. Tracce di rifornimento. Residui dell’insaziabile sete del camionista seduto al volante a torso nudo in una giornata di ordinario lavoro. Tutto qui.

Questa è la Kamchatka, bellezza.

Anche quel che sembra strano è normale, in questo mondo che i suoi abitanti descrivono come una nebulosa tutta da scoprire. “Qui non esistono strade: solo direzioni”, ci avevano annunciato al nostro arrivo. E infatti capiamo subito che è vero. Un volo su Mosca, poi un altro per Petropavlovsk. Non ci serve altro per sprofondare nell’anima più vera, più tradizionale, più bella dell’ex Unione Sovietica: senza traiettorie precise da seguire, solo con la sensazione che tutto sia da esplorare.

Ci planiamo sopra arrivando dall’Ovest del capitalismo, volando sui vulcani fumanti che sbucano dal bianco sconfinato di quest’annata eccezionale. Li guardiamo incantati dall’oblò, e già sogniamo discese da mordere con le lamine, polvere da respirare a pieni polmoni, altezze da raggiungere, distanze da coprire. Siamo turisti, ma non ci piace la scia tracciata dai colleghi europei. Niente resort nella capitale, niente elicottero da decine di rotazioni al giorno.

Il nostro sci nella penisola dei vulcani sarà qualcosa di diverso. Avventura, vita selvaggia. Scoperta. Qualcosa di più barbaro ma più vero, che solo l’agenzia cui ci appoggiamo – Kamchatka Explorer – offre, unica in tutto il Paese. Arriviamo e non fa freddo. Ci aspettavamo temperature più rigide, a due passi dallo stretto di Bering. E invece tutto sommato male non si sta.

Sappiamo che dovremo vedercela con il vento e le bufere di neve, ma quella sarà storia da affrontare sci ai piedi. E non ci pensiamo. Partiamo con la capo-agenzia, l’alaskiana Marta, la guida Igor e la “local” Elena. Ci viene presentata come segretaria, ma scopriamo ben presto che la ragazza, passato da studentessa in Germania, all’occorrenza sa trasformarsi in cuoca, rifornitrice di materiali, addetta alla logistica. Non male. Pensiamo che in fondo potremmo farne a meno, indipendenti come da sempre siamo abituati ad essere. Ma accettiamo la sua collaborazione. E ancora non sappiamo quanto quella prima sensazione si rivelerà sbagliata.

La direzione è il nord, dove giacciono due dei circa trenta vulcani attivi presenti nel Paese, mete pronte su cui riscaldare le gambe. Passeremo lì i primi giorni della nostra “quindicina”, un marzo di neve tardivamente abbondante sulle Alpi e di straordinarie precipitazioni agli antipodi del globo.

Ci arriviamo in macchina, lasciandoci alle spalle le strade della capitale costellate da automobilisti piantati nella neve. La sistemazione è decisamente in linea con il nostro bisogno di avventura. Una capanna dall’aspetto e dalla sostanza spartani, priva di comfort materiali ma dotata di tutto ciò che serve. Un letto su cui stendersi, una stufa, un tavolo su cui mangiare i piatti preparati da Elena e la nostra toma. Esattamente quanto il gestore, un ex militare ora diventato eremita, ha ritenuto fosse sufficiente per condurre una vita normale. L’essenziale, non fosse per quella “perla” di non poco conto che troviamo all’esterno: una sauna che scalda anche le tre capanne, la nostra, la sua e quella che ospita il wc. Uniche testimonianze di vita in un nulla fatto di natura ma anche di pericoli, tanto che l’antidoto alla violenza delle bufere è sotto gli occhi di tutti: un cavo d’acciaio che unisce le casette, impedendo che volino via e dando una traccia di direzione a chi deve proprio correre là anche in quei momenti.

Saranno tre giornate di scenografico sci. Nulla di improponibile, almeno dal punto di vista tecnico. Ma di estrema bellezza. Si va di pelli, perché alternativa, da queste parti, non c’è. E ogni giorno sono almeno 800 metri di dislivello, su pendii in grado di regalare neve da urlo alternata a crosta ventata. Serve fortuna, per imbattersi nell’angolo di versante più godibile. Ma la vista da vicino del cratere fumante ripaga da ogni delusione sportiva: è qualcosa che non abbiamo mai visto. E questo ci emoziona.

Il tempo è bello, non fosse per qualche tempesta di neve mattutina e il vento che di tanto in tanto ci spolvera per bene. È lo scenario giusto per godersi le sterminate distese di neve, le vallate ampie tutte da scoprire, il nulla in cui nessuno vuole addentrarsi. Eppure, anche la civiltà in qualche modo ci attira. Ed è questo a spingerci un giorno verso una piccola stazione sciistica, un angolo dimenticato da Dio nel quale sopravvivono due ancore e un baretto come reduci del passato. Un posto talmente local che gli impianti ai turisti aprono solo alle 12, dopo aver fatto generoso spazio alle scuole di sci e allo sci club del posto. Un’esperienza da vivere, comunque. Anche per il bellissimo bosco nel quale ci immergiamo per un fuoripista da bere tutto d’un fiato.

Quando si fa tempo di partire e cambiare base, l’avventura sembra farsi più avvincente. “Bella storia”, mi dico. Quattro ore di motoslitta da percorrere tutte al traino, sci ai piedi, per raggiungere un paesino dopo il passo. La nostra nuova destinazione. Ma ancora non so che sarà un’esperienza fisicamente devastante. Quantomeno per le mie povere braccia e i continui sobbalzi sulla neve tatuata dai cingolati del bulldozer e dei camion che lo seguono.

Arriviamo infine nella nostra nuova casa, un’altra capanna gestita questa volta da un curioso personaggio che fa coppia fissa con un gattino. Un genio, per noi, visto che sfruttando il geyser che sgorga a due passi dall’abitazione ci ha ricavato una piscina in cemento armato. Quaranta gradi di puro piacere immerso in una sconfinata, e abbondantissima, distesa di neve.

Soddisfiamo subito la nostra voglia di sci tentando un vulcano a poca distanza. Saliamo sci a spalla, ma qualcosa non ci piace. Tanta, troppa neve. Pendii rischiosamente aperti. Freddo. Placche a vento. Odore di pericolo. A duecento metri dalla cima decidiamo di tornare indietro, convinti che sia qui, nel saper dire anche no, il vero segreto di un giusto alpinismo. Sarà una bella sciata. Ma quel rifiuto sarà anche un presagio che ci farà venire i brividi: poco dopo veniamo a sapere da alcuni militari sbucati da un carro armato che mentre salivamo la montagna eravamo binocolati. I pendii che avevamo scelto erano gli stessi su cui i militari avevano in programma un’esercitazione di distacco artificiale delle slavine. Bombe, in pratica. Che ci sarebbero piovute esattamente sulla testa, se i militari non ci avessero visti e non avessero cambiato destinazione. Come dire, un colpo di fortuna. Ripagato ulteriormente dalla concessione ricevuta poco dopo: il permesso di assistere al lancio delle bombe su una montagna vicina. Una scoperta. E visto che neppure uno scoppio sarà capace di staccare qualche metro cubo di neve, anche un sollievo.

Nel piccolo rifugio l’aria è calda. I tubi che trasportano l’acqua del geyser sono in grado di creare atmosfere a dir poco estive. E noi ci passiamo le notti quasi boccheggiando, in un paradosso fatto di sacchi a pelo e finestre aperte. Ma quel che conta è solo sciare. Ovunque, comunque. Scegliendo a caso i pendii, semplicemente guardando le montagne intorno e puntando il dito. Un po’ come si fa col mappamondo da bambini, quando si lascia alla scelta di un piccolo indice il posto in cui si vorrebbe essere in quel momento. Sono gite che si susseguono giorno dopo giorno, senza grosse distanze. Un piccolo paradiso tutto da scegliere, come un mazzo di carte da cui estrarre la più bella.

Questa è la Kamchatka, bellezza. Sci sconfinato, libertà senza limiti. Città in cui sfilano palazzine a cubetti arredate da chilometri di tubi del teleriscaldamento. Posti lontani da quel sapore fintamente occidentale che respiriamo da sempre, perché dotate sostanzialmente di nulla, se non di quanto basta. Nonostante ciò, è evidente, non c’è comunque povertà. I ragazzi studiano all’estero, l’inglese è ovunque, la vita non è dura. Forse è la scia di quel rigoroso comunismo che per decenni qui ha lasciato il segno, e che Igor, in confidenza, ci dice che “faceva stare bene un po’ tutti”. Sono considerazioni che alimentiamo nei nostri estemporanei giri nei centri abitati, quando di tanto in tanto capitiamo tra la civiltà. Un mondo che, solo all’ultimo, vogliamo assaporare anche nella sua declinazione più commerciale.

È la fine della vacanza. E anche noi sciatori del selvaggio, dell’avventura, decidiamo che è ora di una bella frullata. Prendiamo l’elicottero per chiudere il sipario in grandezza, con una giornata di eliski. Ma anche qui è un’esperienza da raccontare. L’ammonimento è di quelli che ti mettono a tuo agio fin da subito. “Niente foto prima del volo, solo dopo”, ci viene caldamente suggerito. Il pilota è scaramantico: ecco la chiosa. Roba da toccarsi le lamine, non fosse che sono d’acciaio e non di ferro. Non c’è comunque granché da fare, se non accettare il simpatico consiglio. La faremo dopo, la foto. Andrà bene lo stesso.

Solo in volo capiamo che la scaramanzia del pilota ha un suo perché. Lui, con il suo sguardo che non si schioda un millimetro dal nulla che ha davanti, che nemmeno ci degna di un’occhiata, lui che sembra cortesemente, ma silenziosamente, chiederci se non potevamo proprio starcene a casa nostra, alla fine alza in aria un arnese che chissà quanti anni conta. E lo fa volare, almeno.

Poi poco conta che ogni atterraggio sembri un frontale con un bisonte, o che la neve su cui poggiamo si tinga magicamente di gasolio ad ogni impatto. Quel che conta è sciare, e per ben otto volte sfidiamo la sorte risalendo su quel mostro delle nevi dal passato militare. La cosa più bella, alla fine, è potersi godere in santa pace queste ultime discese. Senza pelli da attaccare e staccare, senza fatiche da sopportare, senza nulla se non il piacere di scendere in direzione dell’oceano. Saranno gli ultimi scampoli di un ricordo che ci terremo dentro. Sarà neve e nient’altro. Da divorare liberi. E noi ce la godremo a perdifiato, sapendo che ad ogni giro ritroveremo ad aspettarci quelle pale che girano solo per noi.

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