Management e palestre: un romanzo distopico

Dalle palestre di bodybuilding alle executive gym e ritorno, quello tra management e palestre è un romanzo distopico

Management e palestre

Per fitness mondo e universo palestraro non è finita. Nemmeno con la mazzata della pandemia. Ci rialzeremo. L’inizio di una “piccola” fine, però, ha a che fare con la semantica e risale a quando il guerrilla-marketing (nonno del viral-marketing) di manager passati dai danni alle banche ai disastri fitnessisti messi (poi) in atto da noi, impose l’ostracismo verso qualsiasi parola o uomo legato all’icona palestrara per eccellenza: Schwarzenegger Terminator. Il body-building doveva, in men che non si dicesse, essere nascosto sotto il tappeto. Si realizzò così, inesorabilmente, sorta di territoriale conquista talebana da parte delle essenze, dei bonsai e di ammennicoli attrattivi nella forma quanto disattrattivi nel contenuto. Sempre secondo i manager prestatici da banche e finanza, divani in tinta e teneri bonsai avrebbero dato il colpo d’occhio giusto, quello che avrebbe fatto vendere più iscrizioni alle palestre.

Fu così che tanti centri fitness diventarono “non luoghi” (come gli autogrill), “lounge area” (come le discoteche) “executive gym” (come le SPA). Ci si chiederà: va bene, ma com’era prima? Prima era un’altra storia: il titolare palestra era quello grosso che avendo pur barato con “sostanze” e “integratori”, si era presentato come un bonaccione partecipante a gare nei dintorni per tirare su iscritti. E quindi, solo per sbarcare il lunario e portare il pane a casa. La discesa repentina di costoro nell’organigramma direzionale delle palestre, coincise con l’ascesa fulminea del fenomeno ex-banca, ex-formatore, ex-consulente strategico che, non solo iniziava a occupare le caselle che contavano, ma si catapultava a coordinare workshop motivazionali con un phisique du role non propriamente rassicurante: questa infornata di nuovi direttori la palestra non l’aveva mai vista. Ma tant’era. Ci si doveva fidare, perché noi manager del settore fitnessista, secondo alcuni, non eravamo veri manager, mentre loro lo erano stati, per giunta, in settori dove avrebbero dovuto essere ancor più allenate le capacità predittive: il settore della finanza e quello dei mercati (con previsioni che avrebbero poi affossato migliaia di investitori).

Tornando alla volgare palestra e a noi fitness manager di basso livello, secondo dettame comune, per farla proprio breve era finita l’era dello squat. Lo squat o accosciata, per dirla all’italiana, era crocevia di discussione e livellamento sociale. Se una volta si era tutti uguali sotto il castello d’acciaio, ora si era tutti diversi, ognuno col proprio abbonamento personalizzato. Ma personalizzato a chiacchiere. E come si scopriva la non personalizzazione? Semplicissimo: un giorno sì e uno pure, il cliente “sovrappeso” si ritrovava con lo stesso programma di allenamento di quello “sottopeso”. Eppure l’azione commerciale era stata architettata dai “formatori turlupinatori” che non si erano accontentati dell’impallinato singolo ma avevano piazzato l’iscrizione a tutta la famiglia, nonno compreso, che sulla cyclette in palestra ci sarebbe passato due volte in un anno.

La smaterializzazione e lo sbriciolamento progressivo del fitness (nonché la semantica), segnarono perciò l’inizio di questa “piccola” fine. Dal wellness prima al leisure poi, dal benessere prima allo starbene poi, il punto di non ritorno verso l’agognata comprensibilità del fitness, unico modo per vendere davvero iscrizioni in palestra, era stato superato. Si era andati oltre il significato del fitness e lo si era affumicato, rendendolo inesplicabile e quindi invendibile (c’erano pure i biscotti fitness). Ma non è tutto. L’assunto storico e sacrosanto che in palestra qualche sacrificio si dovesse pur farlo per raggiungere uno straccio di risultato, preoccupava le teste d’uovo che nel frattanto spingevano verso strategie comunicazionali super-soft. Con la fumosità si provava a vendere meglio il fumo. Ma la palestra non era e né sarà mai il circolo degli scacchi.

La palestra è come minimo alzare qualche peso e tirare giù qualche cavo alle macchine perché nessun corpo si mette sui binari solo con liposuzioni, settimane a bagni di fieno e pappine vegetali. Questo il danno, poi la beffa: l’accusa d’esser drogati di troppo sport e troppa fitness-foga, arrivava proprio da chi incassava mille euro per qualche giorno di massaggi e tisane miracolose. E così, per qualche anno, tante palestre si svuotarono e tante aree di remise-en-forme, per frequentare le quali ci voleva un mutuo, si riempirono. Una curiosa storia di vasi comunicanti e di tiro incrociato. A volte persino di “fuoco amico”.

Di lì a seguire si passò all’importazione di altre scemenze e grullerie che aumentavano i costi ma non i ricavi: “fitness tools” che si vendono ancor oggi in analogico (anche se la TV è digitale il mercato di destinazione è analogico) e in digitale (ti arriva la notifica appena cerchi il prezzo di un paio di mutande sportive). Altre genialate arrivarono da tappetini su cui si doveva scivolare rischiando due rotule in contemporanea, dai sacchettini d’acqua, da pesi e pesettini dalla forma marziana, da pedane rotanti e molleggianti, da palloni, palloncini, palline e sciabolette, da elasticoni, elastichini spade e guantini. E da macchinari che se ti ci mettevi dentro facevano tutto loro (la rata però dovevi muoverti a pagarla tu). Tutto si tentò e niente si fece.

Nel frattanto, il fitness-cliente-target-potenziale tornò al ragionamento semplice, alla razionalità contadina che lo portò a sostituire la membership palestrara con una corsa sul prato + play-list, scansando le paure a costo zerovirgolazero. Perché mai chiudersi in palestra a correre su un pavimento che corre su un altro pavimento? Era questo il colmo. E fino a che il colmo restava colmo poteva passare ma se il colmo diventava caro, grazie. Intanto, arrivavano rumors di vecchi capannoni di periferia che, con vernice e murales alle pareti, raccattavano pneumatici di camion, funi, plinti da salto e facevano iscrizioni a colpi di flessioni, balzi e salite alla fune. Vittoria luddista che spiazzava i bonsai del management “prestatoci” e riduceva l’avanzata talebana dell’essenza al bergamotto che ti arriva in faccia mentre ti stai allenando.

Foto di Andrea Piacquadio da Pexels

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Pubblicità

Potrebbe interessarti anche...

Nessun Tag per questo post