Elogio del perdersi

Perdersi è un’esperienza sempre più rara. Anzi, ormai perdersi è qualcosa che non vogliamo più fare, che evitiamo in ogni modo e che stigmatizziamo anche. Come se perderci fosse un male, qualcosa di negativo, un disvalore. GPS, mappe, navigatori hanno totalmente eliminato l’idea che ci si possa perdere, e affermato quella secondo cui non trovare la strada al primo colpo è qualcosa di inconcepibile. Vale in città, e vale anche nella natura, vale per gli adulti e vale anche per i bambini.

Non siamo più disposti a perdere la strada

Vogliamo che il sentiero sia perfettamente segnato, e se non lo è vogliamo che sia il navigatore a dirci dove andare. Vogliamo fare sempre la strada più breve e più veloce e con meno traffico, e la chiediamo al navigatore. E quando viaggiamo, a piedi, in auto o in bici, la nostra attenzione è tutta sulle indicazioni e non su ciò che ci circonda. Attraversiamo città, paesaggi, aree naturali guardando la mappa digitale e non l’ambiente, naturale o antropizzato, che ci è intorno. Tanto che, da soli e senza navigatore, spesso non siamo in grado di ripetere la stessa strada.

Elogio del perdersi

Ma siamo sicuri che questo avere sempre tutto sotto controllo, questo sapere sempre esattamente dove siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando sia qualcosa di positivo?

Troverai la tua strada se prima avrai avuto il coraggio di perderti – Tiziano Terzani

Perdersi è un momento di svolta. Perdersi è un momento di crescita. Perdersi significa uscire dalla propria zona di comfort. E questo vale sia fisicamente che psicologicamente. Facciamoci caso, o proviamo a ricordarci: quando non sappiamo dove siamo i nostri sensi, le nostre percezioni, la nostra attenzione si acuiscono. Tutto di noi si proietta alla scoperta, al riconoscimento e all’analisi di ciò che ci circonda e ci può aiutare a ritrovare la strada: da che parte è il sole? Il sentiero è battuto oppure no? Questi edifici li ho già visti? Estremizzando molto la metafora, spostarsi guardando solo il navigatore può portare a incastrarsi in un vicolo con la propria auto (è successo davvero a un uomo che stava andando al ristorante a Meana di Susa, nel Torinese).

Imparare a perdersi è un momento di consapevolezza

Imparare a perdersi (un po’) è invece un momento di grande consapevolezza, di sé e del mondo che ci circonda. Kant parlerebbe di Aufklärung, ossia dell’imparare a servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri, gli psicologi parlerebbero di “essere presenti a se stessi“.

Qui mi ci sono già perso una volta, perciò so dove siamo – Erling Kagge

Perdersi, imparare a fare affidamento sulle proprie risorse, sentirsi padroni del proprio destino è un momento di crescita. È un po’ un cliché, ma perdersi è un momento di crisi, e nelle crisi ci sono sia i pericoli che le occasioni e le opportunità. Lo stesso ideogramma cinese che rappresenta la parola “crisi” contiene i simboli sia del pericolo che dell’occasione.

È quando ci si perde che scatta la resilienza

Vale nelle fasi della vita, vale in economia, vale nelle relazioni, vale nella Storia dei popoli e delle nazioni: è quando ci si sente persi che scatta la resilienza, questa parola bellissima che significa saper trovare le risorse per superare gli eventi senza spezzarsi. E perdersi, in questo senso, porta un po’ anche alla scoperta di sé, del modo in cui reagiamo alle avversità, del modo in cui affrontiamo i territori inesplorati della vita.

Follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Albert Einstein

Perdersi porta in un territorio inesplorato, e ragionevolmente a scoprire cose nuove. Possiamo sperimentarlo nel piccolo della nostra quotidianità: quante volte siamo passati davanti a quel vicolo e abbiamo tirato dritto? E quante volte invece, per distrazione, abbiamo imboccato la strada “sbagliata” scoprendo un negozio, un parchetto o un monumento che non conoscevamo?

Saper riconoscere l’imprevisto

Adesso si usa chiamarla Serendipity, l’arte di trovare qualcosa di imprevisto (e di saperlo riconoscere) ed è qualcosa che ha a che fare anche con la libertà, e che bisogna imparare a coltivare, imparando un po’ a perdersi. Il filosofo tedesco Wilhelm Wundt la chiamava eterogenesi dei fini, o conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali: perdersi un po’ volutamente per scoprire qualcosa di nuovo involontariamente. E non c’è bisogno di andare chissà dove, o di mettersi in pericolo. Le microavventure cominciano anche appena oltre la porta di casa.

elogio del perdersi

Perdersi è un momento di problem solving. E il nostro cervello è programmato per risolvere i problemi. È un po’ come unire i puntini, o inserire le lettere mancanti: ci siamo persi, cominciamo a mettere insieme le informazioni che raccogliamo con i sensi, e il nostro cervello elabora una mappa mentale che ci consenta di prendere una decisione sulla direzione da prendere. Ci sono persone – poche – che questa capacità non ce l’hanno proprio, a causa di una disfunzione cerebrale (si chiama DTD – Developmental Topographical Disorientation) che li fa smarrire anche tra le mura di casa. Ma con opportuni esercizi e addestramento sul campo riescono a migliorare sensibilmente: tutto avviene nell’ippocampo, la parte del cervello deputata alla memoria a breve e a lungo termine, alla memoria spaziale e all’orientamento, e funziona allo stesso modo di quando stiamo imparando una nuova lingua. C’è di più, lo stesso meccanismo sembrerebbe che sia anche il motivo per cui i maschi hanno maggior capacità di orientarsi nello spazio delle donne, una scoperta di cui avevamo parlato già in questo articolo.

Perdersi è un atto creativo e sovversivo

Perdersi infine è anche un atto creativo. Non sempre possiamo essere razionali nei momenti di smarrimento, benché vorremmo tanto esserlo, per fare affidamento solo su ciò che possiamo controllare. Ma facciamo un’ipotesi: siamo in un bosco, il GPS non prende, non abbiamo mappe né indicazioni. Possiamo analizzare razionalmente il contesto – dov’è il nord, dov’è il fondovalle – ma nessuna scelta sarà mai assolutamente sicura e certa, ed è in questo momento che scatta il processo creativo, che è un altro pezzo del processo di problem solving.

Alla fine perdersi un po’ non è necessariamente un male, perché può portare a un apprendimento più profondo di sé, dei propri obiettivi, dei propri interessi, delle proprie risorse fisiche e mentali. E in definitiva a crescere come persone.

Photo by Paulius Dragunas on Unsplash

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