Ho cominciato a pensare al valore del silenzio la sera di qualche domenica fa. Era stato un weekend troppo pieno di cose, per lo più che non avrei voluto fare ma andavano fatte, e per tirare il fiato e riallinearmi prima della nuova settimana sono andato a fare una lunga passeggiata con il mio cane. Ho la fortuna di vivere proprio al limite di una grande area agricola e boschiva, era quasi l’ora di cena e stranamente non ho incontrato nessuno per tutta l’ora abbondante in cui ho passeggiato.
Il valore del silenzio
Non appena sono tornato sulla strada asfaltata per il ritorno a casa sono passate in rapida sequenza due moto di quelle americane con anche l’impianto audio, un’auto con la musica a tutto volume e un ragazzo con una moto da cross, e mi sono reso conto che avevano interrotto bruscamente ciò in cui ero rimasto immerso per tutto il tempo della mia passeggiata: il silenzio. Che è esattamente come la cosa più brutta di ogni escursione in montagna.
L’assenza di rumori intorno a noi
Non me n’ero in effetti reso conto, ma per più di un’ora non avevo sentito rumori. Non voci, non suoni, non motori, clangori, sferragliare, claxon, stridori e qualunque altro rumore al quale siamo ormai assuefatti nelle nostre vite urbane e civilizzate. Ed è in quel momento che ho cominciato a pensare a quanto fosse stata preziosa, inconsapevolmente, quell’ora di assenza di rumori intorno a me, a come ci fosse voluto il rumore per farmi riconoscere il silenzio, e a come avevo vissuto quelle manciate di minuti della mia giornata.
In effetti non me n’ero reso conto perché, come in uno stato di flow senza distrazioni, avevo cominciato a pensare a tutta una serie di cose che affollano e condizionano la mia vita in questo periodo. Cose alle quali normalmente non riesco a pensare con la stessa continuità e profondità perché sono continuamente distratto. Nemmeno isolarmi con la musica quando faccio il pendolare in treno mi aiuta. E ci voleva il silenzio per riuscire a farlo.
Chi ha paura del silenzio?
Eppure la maggior parte delle persone non ama il silenzio, e non è quella situazione di paura di trovarsi al buio, da soli e con qualunque suono che diventa minaccioso. È un disagio più profondo, la paura di stare da soli con se stessi e affrontare se stessi. Affrontare i propri pensieri, affrontare le proprie debolezze, affrontare le proprie false verità. E forse è anche paura dell’insignificanza, paura del non essere considerati perché non sentiti, non visti, non percepiti. E oggi più che mai l’essere è l’esserci, sempre e ovunque. Viviamo nell’epoca in cui se non mostriamo, non siamo, e il silenzio è in qualche modo la negazione di questa nostra epoca. Una negazione rivoluzionaria dell’epoca dei social e delle connessioni sempre attive.
Il rituale del silenzio
Eppure in molte culture il silenzio è (o è stato) un vero e proprio rituale di presa di coscienza di sé. Nella tradizione induista indiana c’è il Mouna Vratham, un rituale di silenzio meditativo che consiste nell’astenersi dal parlare per un periodo prestabilito ogni giorno, tipicamente al mattino o la sera, per raggiungere la condizione di pace interiore.
Anche nella tradizione religiosa cattolica esiste qualcosa di simile. Per esempio i frati francescani che trascorrono i 40 giorni della Quaresima in silenzio. Cristianesimo, Ebraismo, Islam, Induismo hanno sempre sostenuto la pratica del silenzio in vari modi come strumento di avvicinamento alla trascendenza e al se stesso più profondo.
Il prezzo del silenzio
Qualche anno fa una mia amica ha pagato (profumatamente) per passare una settimana in una specie di ashram in assoluto silenzio. Niente telefono, da consegnare all’arrivo, niente radio, tv, niente chiacchiere, relazioni, convivialità. Niente rumori in un luogo lontano da tutto. Mi era sembrata una delle (tante) cose strambe di questa amica, ma in effetti pagare è un modo utilitaristicamente interessante, nella cultura di oggi, per oggettivare qualcosa che ormai percepiamo solo come mancanza. Come se il silenzio non fosse qualcosa in sé, ma l’assenza di altro, cioè i suoni e i rumori e le voci.
Ma questa forse è la visione più superficiale. Perché in effetti non aveva pagato per il silenzio, ma per stare con se stessa, ritrovare la propria voce interiore, incontrare di nuovo il proprio io profondo e imparare di nuovo ciò che era davvero importante. Importante per se stessa.
Riscoprire il silenzio
Riscoprire il valore del silenzio non è facile, perché ci costringe a fare i conti con i nostri pensieri. Ci costringe a fare i conti con qualcosa che, per chi vive una vita urbana e socializzata, può apparire come spaventoso. Spaventoso come la presa di coscienza dell’essere in sé e dell’essere per sé per Sartre, e spaventoso come il conflitto che questa presa di coscienza genera nel suo famoso saggio di ontologia fenomenologica L’Essere e il Nulla.
Eppure dovremmo imparare a ritagliarci dei momenti di silenzio, intorno a noi e dentro di noi, e sfidare quel nulla che ci porta alla libertà. Momenti in cui non parliamo e nemmeno vogliamo essere distratti da suoni e rumori. Quando si superano paura e ansia, in particolare l’ansia del non fare nulla che ormai pervade la maggior parte di noi, allora ci rendiamo conto che con la calma e il silenzio riusciamo a concentrarci in modo più profondo e creativo, tutto ci appare più chiaro a breve, medio e lungo termine, riusciamo a collegare punti che altrimenti ci appaiono lontani e l’introspezione di precipita in un senso di consapevolezza di noi stessi più profondo.
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